top of page
Home: Benvenuto
Home: Blog2
  • Immagine del redattoreMatteo Piovacari

Debiti e infrastrutture: la Cina alla conquista del continente Africano

Aggiornamento: 5 apr 2021

Di Matteo Piovacari


Quando le superpotenze muovono le pedine di maggiore rilevanza strategica nello scacchiere internazionale, spesso lo fanno lontano dai riflettori, senza fare troppo rumore. La Cina si è rivelata maestra in questo, silenziosamente espandendo la propria area d’influenza su tutto il continente Africano. Due i capisaldi della politica estera di Pechino: investimenti ultramiliardari e grandi opere infrastrutturali. In poco più di un decennio, il gigante Asiatico sta scalzando le potenze Occidentali, storicamente dominanti nella regione, diventando primo partner commerciale con l’Africa, con un volume di scambi passati dai circa 10 miliardi nel 2002 ai quasi 200 dell’ultimo triennio. Una rivoluzione sul piano commerciale, questa, che tuttavia si presta a mascherare un silente stravolgimento delle dinamiche geopolitiche mondiali. Nonostante le forti spinte de-colonizzatrici della seconda meta del 900’, il continente Africano si trova ancora sottoposto una forte ingerenza delle ex-potenze coloniali, ma per quanto ancora?


Dati alla mano, la presenza cinese in Africa è massiccia. Secondo lo studio condotto dalla McKensey & Company, in tutto il continente Africano opererebbero circa diecimila aziende cinesi in un mercato in forte espansione dal 2005. Di fatto, la Cina è diventata la nazione appaltatrice di maggior rilievo nel campo dell’edilizia e delle infrastrutture pubbliche. Come cita un altro studio della John Hopkins School, il governo cinese ha prestato un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane; fondi destinati soprattutto a finanziare opere pubbliche nei settori dei trasporti, dell’energia e dell’estrazione di materie prime. Nel 2018, il presidente Xi Jinping ha rilanciato il coinvolgimento cinese nel continente Africano, annunciando l’istituzione di un ulteriore fondo d’investimento dal valore di 60 miliardi di dollari, che si sarebbe sommato al miliardo previsto nello sviluppo della Belt & Road Initiative (BRI). Certamente, l’Africa rappresenta un tassello fondamentale nel puzzle economico e geo-strategico del Partito Comunista Cinese.


Quando si parla di politica estera ed interessi nazionali, infatti, quasi nulla accade senza conseguenze.

È lampante come la Cina abbia molteplici e paralleli interessi in gioco in Africa. Tuttavia, l’ancora fresco ricordo del violento passato colonialista non ha impedito ai paesi africani di accogliere con entusiasmo gli investimenti cinesi, favorendo così la costruzione di un’area d’influenza da molti definita ‘neocolonialista’, in seno a Pechino. Dalla sua, la Cina ha saputo sfruttare abilmente la retorica anticolonialista, condivisa anche in Oriente, consacrando i principi di neutralità e non interferenza contro le ingerenze Occidentali sul suolo Africano. Osservatori esterni, tuttavia, hanno messo in guardia circa i pericoli della cosiddetta ‘trappola del debito’, e cioè la capacità del governo cinese di esercitare pressioni ed influenza diplomatica sugli esecutivi locali sulla base del debito contratto. Per mostrare un esempio di ciò, il primo paese, anche se non africano, a subire le conseguenze di un indebitamento eccessivo nei confronti della Cina è stato lo Sri Lanka, altra pedina fondamentale nella mappa espansionista di Pechino. Qui, la proprietà del porto strategico di Hambantota è passata nel 2017 quasi totalmente nelle mani di una compagnia cinese dopo che il governo di Colombo aveva ammesso di non riuscire a ripagare gli 1.4 miliardi di dollari usati per costruire lo scalo portuale. Quello dello Sri Lanka, tuttavia, rimane un caso isolato, per ora. Per questo motivo parlare di una vera e propria strategia cinese che punti sull’indebitamento dei propri partner commerciali è forse ancora prematuro.


Ciò nonostante, nella sua lungimirante visione strategica, la Cina ha concentrato massicci investimenti attraverso la China Development Bank verso alcuni paesi dell’Africa Subsahariana come l’Angola, il Kenya o la Nigeria, facilitando la costruzione di infrastrutture strategiche come ferrovie, autostrade e linee di telecomunicazione. Tutto questo concedendo prestiti con bassissimi tassi di interesse a Paesi ad alto rischio finanziario, che quindi difficilmente riuscirebbero a ricevere fondi da altri enti bancari. Il credito cinese ha provveduto a dare una spinta propulsiva alle economie africane, anche laddove la possibilità di mancare il pagamento del debito sarebbe effettivamente piuttosto alta. Questo perché ogni singolo mattone finanziato da Pechino cela un obbiettivo politico chiaro. Ragionando a lungo termine, la Cina starebbe puntando sul trasformare i propri investimenti economici in influenza politica nei confronti degli Stati interessati, sia detenendone direttamente il debito pubblico, sia per il fatto che asset fondamentali per la loro tenuta economica, come telecomunicazioni o infrastrutture di trasporto merci, si trovano oggi in mano ad aziende cinesi o potrebbero cambiare di proprietà qualora i governi non riuscissero a saldare i propri debiti. Un esempio di ciò è il porto di Mombasa, ad oggi il più grande dell’Africa Orientale, che potrebbe passare in mani cinesi se la compagnia nazionale Kenya Railways Corporation non riuscisse a ripagare i 3 miliardi di dollari dovuti agli istituti di credito cinesi. Non c’è dubbio che in questa strategia permane la volontà di includere l’Africa come parte fondamentale nel piano cinese di dominazione del commercio globale attraverso la BRI. E quando si parla di vie commerciali, le infrastrutture rappresentano un nodo chiave.


Ma non solo, la Cina sembra avere interessi molto più immediati in Africa, che ancora una volta vede le proprie risorse naturali al centro delle mira espansionistiche di una potenza straniera. La crescita esponenziale vissuta dal colosso Asiatico nell’ultimo decennio ha fomentato un’importante domanda interna in termini di risorse sia per alimentare l’industria produttiva in forte espansione, soprattutto in alcuni settori come quello tech, che per la sussistenza di una classe media sempre più ampia. Il mercato cinese, giungendo ad una saturazione interna che vede la Cina passare da paese in fase d’industrializzazione a nazione industrializzata a tutti gli effetti, ha bisogno di nuovi sbocchi. Da qui l’opportunità d’istaurare canali commerciali favorevoli con un continente che è prossimo a una trasformazione socioeconomica radicale, con un’economia complessiva che molti stimano potrà valere 5 trilioni di dollari. Ma dall’exploit della macchina produttiva cinese nasce anche il crescente bisogno di energia, e quindi di petrolio, di cui l’Africa è diventata seconda fornitrice della Cina dopo i paesi mediorientali. Infine, di forte attrattiva per Pechino sono le tanto ricercate risorse minerarie dell’Africa, come il cobalto, di cui la Repubblica Democratica del Congo detiene metà delle riserve mondiali, o il coltan, insieme alle altre cosiddette terre rare, cioè miscele complesse di minerali necessarie nell’industria di componenti elettronici. Che stia puntando all’egemonia dell’ordine internazionale, o rispondendo a bisogni pratici dettati dallo sviluppo economico, la Cina si trova oggi ad essere uno degli attori più influenti sul suolo africano.


Mentre la Cina ha saputo costruire canali diplomatici robusti con molte nazioni africane, e la sua economia si è trovata progressivamente integrata con il tessuto sociale di quest’ultime, la vicina Unione Europea (UE) ha mosso passi incerti sullo stesso territorio. Gli sforzi dell’Unione, in parte frenati dai timori d’ingerenza dei regimi post-coloniali, sono stati penalizzati dal proprio stesso modello di cooperazione allo sviluppo, il quale vincola il rispetto di determinati principi (liberali, anche detti ‘clausole democratiche’) agli aiuti erogabili. Il segreto del successo cinese sta invece nella politica del no strings attached, ‘niente condizioni’. Letteralmente, Pechino non prevede particolari vincoli ai propri prestiti, purché questi vengano restituiti nel tempo. Gli indubbi vantaggi di questo modello win-win hanno per il momento avuto la meglio rispetto all’approccio più rigido dell’UE. Per molti Stati africani, tuttavia, lo sviluppo economico rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio, pagato al caro prezzo di un’accresciuta ingerenza cinese. Il rischio maggiore è che Pechino, come nel caso dello Zimbabwe, si ponga come forza legittimatrice e di supporto materiale ai vari regimi dittatoriali presenti in Africa, in cambio di una stretta cooperazione economica.


Il Blocco Europeo si trova dunque davanti a un bivio. Certo, riformulare la propria politica estera allo sviluppo potrebbe favorire un miglior posizionamento dell’Unione in Africa, ma questo comporterebbe mettere in secondo piano i valori fondanti dell’UE. E questo l’Europa, non se lo può permettere. Dall’altra parte, l’attuale modello di finanza allo sviluppo è palesemente rimasto indietro rispetto all’avanzata del gigante cinese. La scelta fra good governance e sviluppo economico è certamente complessa, ma occorre rimodellare una politica estera che sia conscia che ogni spazio lasciato libero sullo scacchiere internazionale viene presto occupato dalle pedine di qualcun altro. E quel qualcuno potrebbe non essere così vicino ai valori liberali dell’Unione.


Fonti & Approfondimenti:


I dati sul commercio Sino-Africano (ENG): https://www.sais-cari.org/data-china-africa-trade





Alla Cina servono energia e materie prime (ENG): https://www.cfr.org/backgrounder/china-africa




66 visualizzazioni1 commento

Post recenti

Mostra tutti
Home: Contatti
bottom of page