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L'accordo Russia-Turchia e la leadership di Putin. Intervista a Pietro Figuera - Limes

Immagine del redattore: Politicose Politicose

La scelta di Trump in Siria, l'accordo Russia-Turchia e la leadership di Putin sono i temi affrontati nell'intervista realizzata dal nostro Redattore Kevin Cafà al Dott. Pietro Figuera, collaboratore della rivista di geopolitica Limes e specializzato nei rapporti tra Mosca e il Medio Oriente.


Viste le ultime vicende che hanno visto protagonista la Siria, i curdi e l'esercito turco, che idea ti sei fatto al riguardo?


1) Non è facile sintetizzare in poche parole quello che è accaduto in queste settimane, soprattutto perché tutto nasce da lontano. Senza voler ripercorrere l’intera guerra siriana, vale la pena spendere due parole per chiarire alcuni aspetti forse meno noti. Partiamo dalla Turchia. Molti hanno quasi pensato che Erdoğan sia impazzito, e abbia deciso di attaccare il Kurdistan siriano per improvvisa follia genocida o addirittura – a quanto leggo – per invidia nei confronti dell’esperimento socio-politico del Rojava. Ecco, se vogliamo capire cosa succede bisogna innanzitutto sgombrare il campo dalle fantasie e dal wishful thinking, che come al solito fanno molti danni. L’attacco turco risponde ad almeno due logiche. La prima, come dovrebbe essere chiaro, si rivolge ai cittadini del proprio Paese. L’azione militare nel nord della Siria compatta infatti l’opinione pubblica turca, sia per ragioni di puro nazionalismo, sia perché i legami dei curdi siriani con l’organizzazione terroristica del Pkk (mai smentiti peraltro dalle milizie YPG) alienano qualsiasi possibile simpatia tra i cittadini dell’Anatolia. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il terrorismo del Pkk ha mietuto diverse migliaia di vittime negli scorsi decenni (e quasi 5000 solo negli ultimi quattro anni), lasciando segni indelebili nel tessuto sociale turco. Questo a prescindere dalla posizione dei curdi in Turchia, che costituiscono un’insostituibile minoranza (circa 20 milioni di persone, di cui 4 a Istanbul) che nessuno può mettere realmente in discussione in quanto tale. La seconda logica rientra nell’ottica regionale. Da anni Erdoğan sta perseguendo una politica neoimperiale (o meglio, neo ottomana) che punta a recuperare gli spazi perduti un secolo fa, con il crollo della Sublime Porta. Tradotto in realpolitik, la Turchia sta pressando in molte direzioni (dal Caucaso al Nordafrica, dai Balcani al Mar Rosso) in cerca di una difficile influenza che la consacri alla guida del mondo musulmano, almeno quello sunnita. Missione impossibile, va detto per inciso, anche a causa delle scarse simpatie che molti arabi provano nei confronti dei turchi. Solo in Siria questa politica sembra avere qualche successo. Per raggiungere questo risultato, Ankara ha dovuto faticare molto in questi anni, arrivando a un passo dall’umiliazione della sconfitta. Ma riconciliatasi con la Russia e ottenuto il benestare per la partecipazione al tavolo sul futuro della Siria (il cosiddetto formato di Astana), la strada è stata in discesa. L’operazione “Fonte di Pace” è la terza in pochi anni, dopo “Scudo dell’Eufrate” e “Ramoscello d’ulivo”. Obiettivo, oltre a quello formale di sconfiggere l’Isis, la creazione di una zona cuscinetto e l’impedimento di qualsiasi velleità nazionale dei curdi. Quanto ad essi, è vero che sono stati usati e poi traditi, dagli americani e non solo. Ma si è trattato, purtroppo, di uno sviluppo più che prevedibile, annunciato fin dall’inizio. Anche i ribelli siriani, in una certa misura, hanno subito una sorte simile. Solo una forte protezione esterna permette a un gruppo di sopravvivere nell’area, di questi tempi. E ciò deve far riflettere anche sulla parabola dell’esistenza dello Stato Islamico: anch’esso non avrebbe potuto aver luogo senza “santi in paradiso”. Detto ciò, a costo di deludere qualcuno, occorre sfatare il mito dell’unitarietà dei curdi. Non esiste ad oggi un “popolo curdo” in cerca di autodeterminazione, esistono semmai delle entità nazionalmente separate della stessa etnia che spesso e volentieri rivaleggiano tra loro, e in molti casi anche al loro interno. I curdi iracheni sono i migliori alleati della Turchia nella regione, e com’è ovvio sono ben ostili ai “fratelli” siriani. Dei curdi iraniani è difficile rintracciare persino la leadership, fuggita in Iraq e incapace di riconciliarsi col suo popolo. I curdi turchi, infine, sono a loro volta divisi tra chi ha scelto la via del Pkk e chi invece, molto più recentemente, quella dell’integrazione democratica nel sistema, attraverso l’adesione al partito Hdp di Demirtaş. Tuttavia, tra di loro il partito più votato resta l’Akp di Erdoğan. Giusto per sfatare alcune semplificazioni narrative, che vorrebbe una lotta all’ultimo sangue tra Erdoğan e l’intero popolo curdo – qualsiasi cosa ciò voglia dire.


Come giudichi l'accordo stipulato tra Erdoğan e Putin qualche giorno fa?


2) L’accordo è piuttosto duro per i turchi. Considerando la spavalderia con cui avevano iniziato le operazioni, facendo persino orecchio da mercante alle pseudo minacce arrivate tardivamente da Washington, l’incontro tra Erdoğan e Putin ha costituito un brusco ritorno alla realtà. Una realtà che vede Ankara incapace di muoversi in piena autonomia nel nord della Siria, a dispetto della retorica consumata dai suoi poteri. Nel concreto, l’accordo prevede il ritiro delle milizie curde interamente gestito dalle guardie di confine siriane e dalla polizia militare russa, ma non stabilisce con chiarezza a chi spetterà disarmarle. Lasciando intendere, forse, che questo passaggio non avverrà. Nell’interesse di chi ancora pensa ai curdi come una pedina utile da muovere al confine tra Turchia e Siria. Le conseguenze più importanti dell’accordo sono due: il ritorno di Assad, le cui truppe rientreranno (anzi lo stanno già facendo) in territori in cui non si vedevano da almeno sette anni, e la presenza militare russa al confine con la Turchia. Con la scusa dei pattugliamenti congiunti con le forze militari di Ankara, infatti, la Russia tornerà a “confinare” con la Turchia per la prima volta in quasi trent’anni, ovvero da quando la dissoluzione dell’Urss creò una catena di Stati cuscinetto nel Caucaso. Uno sviluppo significativo, al di là dei simboli, perché consente a Mosca di controllare in modo molto più diretto le future mosse turche. Ovvero di contenerle, rendendo quindi assai improbabile qualsiasi nuova operazione non concordata e “autorizzata”.


Molti analisti pensano che sia Putin ha dettare le regole in Siria. Sei d'accordo con questa valutazione?



3) Non esagera chi nell’accordo di Soči ha visto una vittoria di Putin. Esagera però chi si lancia a profetizzare un dominio incontrastato dei russi nella regione. La nostra stampa, forse sulle orme di quella anglosassone (che si spinge a parlare di “Putin re di Siria”), soffre un po’ troppo di sensazionalismo. Torniamo a valutazioni più realistiche. In Siria, Putin è certamente il principale vincitore della guerra. Anche più di Assad, che a metà 2015 la stava perdendo (ed è stato salvato proprio dai russi). Il successo però non fa di Mosca la padrona incontrastata della Siria. Innanzitutto per una questione di coabitazione: al di là delle mire turche, tutto sommato ridimensionate, i russi devono fare i conti con l’Iran e lo stesso Assad, non esattamente alleati docili e accondiscendenti. Poi ci sono gli Stati Uniti. Credere alle parole di Trump, che puntualmente annuncia ritiri in favor di telecamere (e di sondaggi interni), è un errore ingenuo. Gli Usa restano in Siria, come peraltro dimostra la recentissima operazione che ha portato all’uccisione di al-Baghdadi (un probabile scambio coi turchi). Al massimo, spostano le proprie forze (comunque non ingenti) in posizioni più congeniali. Abbandonare il Paese significherebbe regalare un altro po’ d’influenza alla Russia, che evidentemente non chiede altro. Può essere un’idea di Trump, ma non del Pentagono. Fatte queste considerazioni, occorre aggiungere un ultimo tassello. In Siria si sta aprendo una nuova fase, inedita e quasi di difficile interpretazione: quella della ricostruzione. Chiuse le campagne militari (ad Assad resta praticamente quasi solo Idlib da riconquistare) arriva il momento degli affari. Mosca si prepara da tempo ai nuovi scenari, ma non è detto che riesca a rimanere protagonista: un conto è il rodato hard power, un altro è il soft power, che nella sua dimensione economica non ha mai visto i russi in prima linea. Certo, ad essi è assicurato un posto privilegiato per via del contributo bellico – le imprese russe riusciranno ad accaparrarsi alcuni contratti milionari. Ma la concorrenza si farà sempre più fitta e senza quartiere. La Russia resterà a lungo amica della Siria per via dell’immenso credito accumulato – la salvezza del regime alawita. Ne detterà però sempre meno le regole, anche se con ogni probabilità sarà un processo poco visibile. Assad non ascoltava granché i consigli di Mosca quando era in pericolo mortale, nei primi anni di guerra, figurarsi quando il suo Paese sarà pacificato e non avrà più impellente bisogno di aiuti esterni. Alla Russia, in ogni caso, va bene così. Il suo obiettivo era quello di tornare temuta o quantomeno rispettata sull’arena internazionale, e l’ha in parte centrato. Ha finora schivato abbastanza i principali rischi (come quello terroristico), ottenendo una considerazione inedita – in alcune aree del Medio Oriente, è persino più rilevante degli Usa, nonostante la sproporzione di forze. Meglio di così non poteva andare per Putin.

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