Di Kevin Gerry Cafà
Le lunghe e drammatiche giornate che hanno accompagnato le elezioni americane di questo tragico 2020, verranno di certo ricordate dal popolo americano e troveranno la giusta collocazione anche nei manuali di storia degli Usa. Alla fine, il popolo americano ha il suo 46° presidente: Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden. Ex senatore del Delaware e vicepresidente di una delle amministrazione più amate degli Usa, Biden è riuscito a battere quel Donald Trump che da circa 4 anni governava indisturbato il paese. Non sappiamo bene cosa abbia spinto il popolo americano a votare Joe Biden. Di certo, un politico che ottiene 74 milioni di voti ha ben poco di inverosimile. Non è stata una vittoria semplice per il neo presidente eletto, il quale è riuscito a ribaltare il risultato negli swing states che davano Donald Trump in netto vantaggio già nelle prime ore della giornata di mercoledì. La notizia del sorpasso di Biden in Georgia ha scosso la notte delle elezioni americane e le speranze di Donald Trump di riconfermarsi alla Casa Bianca. Naturalmente, sul voto per posta si è giocata una buona parte della campagna elettorale e della vittoria di Biden e dei democratici che ne hanno fatto una bandiera, mentre Trump ne ha ripetutamente minato l’attendibilità, fino a chiedere un nuovo conteggio e minacciare di presentare le prove di presunte irregolarità del voto per posta. Aspetti che alimenteranno quella che è stata definita la fase delle Corti. La vittoria di Biden non è solo la vittoria di un semplice candidato democratico alla Casa Bianca ma rappresenta la rivincita dei Democrats, i quali sono riusciti a incidere sulle politiche trumpiane soltanto dopo aver ristabilito quell'equilibrio dell'ordinamento politico americano fondato sui checks and balances, riconquistando la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti nel corso delle elezioni di midterm, che hanno rinnovato una delle due ali del Congresso dando la maggioranza al Partito democratico.
In realtà, la vittoria di Biden dovrà ugualmente aprire un dibattito all'interno dei Dem, visto che nelle ultime due tornate elettorali non sono riusciti a presentare nessun nuovo volto agli elettori americani, ripiegando sulla più navigata Hillary Clinton quattro anni fa e sull'ex vice di Obama in questa occasione, per evitare una sconfitta quasi scontata qualora Bernie Sanders avesse ottenuto la nomination. L'intuizione geniale di Biden di scegliere Kamala Harris come suo vice alla Casa Bianca, è degna del miglior Barack Obama. Kamala Harris non ha solo il merito di avere un forte appeal in un momento storico che vede protagonisti il movimento Black Lives Matter e di essere un'ottima personalità, ma soprattutto rappresenta il futuro dei democratici e dei progressisti americani insieme all'astro nascente Alexandria Ocasio-Cortez.
Biden avrà l'obbligo di fare meglio di Trump nella gestione della pandemia
In questa fase, un velo di curiosità e di grandi aspettative circondano Joe Biden. Molto si chiedono che tipo di presidente sarà e cosa riuscirà a fare nei primi cento giorni presidenziali. Sicuramente, il presidente eletto dovrà ripartire dalla cattiva e a tratti umiliante gestione della pandemia da Coronavirus per un paese come gli Stati Uniti, ponendo fine alla patetica diatriba con l'Organizzazione Mondiale della Sanità innescata da Trump, che potrebbe concretizzarsi con il rientro degli Usa nell'istituto specializzato dell'ONU per la salute. L'ormai ex presidente degli Stati Uniti ha rivolto delle pesanti accuse all'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sospendendo i finanziamenti alla stessa organizzazione: colpevole ai suoi occhi di aver fatto molti errori sul Coronavirus e di essere troppo accondiscendente nei confronti di Pechino.
Per l'Organizzazione internazionale della sanità deve essere davvero snervante ricevere critiche e accuse in un periodo sempre più complesso e in rapido cambiamento come quello che stiamo vivendo. Per mesi Trump ha sottovalutato la pandemia e avrebbe continuato a farlo anche se avesse vinto le elezioni. Dal canto suo, Biden ha manifestato la sua volontà di "ristabilire fiducia, credibilità e obiettivo comune", mettendo fine alla disinformazione, assicurando che le decisioni vengano prese da esperti sanitari e non politici e ristabilendo la Direzione per la sicurezza sanitaria globale e la difesa batteriologica creata dall'amministrazione Obama e soppressa da Donald Trump*. Inoltre, il presidente eletto ha promesso di rendere gratuito il tampone per chiunque ne abbia bisogno e di accelerare lo sviluppo di trattamenti e vaccini. Riportare competenza nella gestione della pandemia e la creazione di una cura reale al virus, saranno sicuramente due aspetti che ritroveremo fin da subito nell'agenda politica di Biden.
Le scelte in ambito energetico e il ritorno al multilateralismo
Un altro tassello che andrebbe ad evidenziare il netto cambio di direzione della politica estera americana è il ritorno degli Stati Uniti all'interno degli accordi di Parigi sul clima, siglati da Obama nel 2015 e stralciati dal suo successore Donald Trump il quale, un anno fa, si era avvalso di una speciale clausola di uscita. Nelle ultime settimane di campagna elettorale, Biden ha puntato parecchio sulla questione climatica, soffermandosi in più occasioni sul fatto che imporrà un cambio di passo sul piano delle politiche ambientali ed energetiche. Programma ambizioso se parliamo di un paese ancora fortemente ancorato allo sfruttamento di fonti fossili e del gas. Per Washington ciò significherebbe rimettersi in riga con gli impegni presi da Obama, vale a dire tagliare le emissioni di gas serra dal 26 al 28% sotto i livelli del 2005 entro il 2025. Impegno oggi difficile da rispettare, considerato che attualmente le emissioni generate dagli Usa sono sotto del 15%*.
Nei due anni alla Casa Bianca, il presidente ha dimostrato che la dottrina dell’America First non si è dimostrato solo uno slogan elettorale, visto che ha lavorato per cambiare in modo profondo l’inerzia di un Paese che ormai lavorava solo attraverso il multilateralismo. Come la scelta di uscire unilateralmente dall'accordo sul nucleare iraniano: uno dei marchi di fabbrica dell'amministrazione guidata da Barack Obama. Nel 2015, l'amministrazione Obama e altri leader "P5 + 1" (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU - Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti più Germania e Unione europea - ), decisero di mettere in campo il mezzo più efficace per impedire all'Iran di sviluppare un'arma nucleare: il Joint Global Action Plan (JCPOA), chiamato a limitare il programma nucleare iraniano di Teheran e istituire una vigilanza energetica nel paese. Tutto spazzato via dalla strategia di massima pressione che Trump ha esercitato nei confronti di uno dei pesi massimi del Medioriente. Sul dossier iraniano, durante la campagna elettorale, Biden ha espresso la sua disponibilità a ridiscutere il ritorno statunitense al JCPOA, anche se i rapporti con Teheran non sono quelli di cinque anni fa quando venne firmato l’accordo. Da qui è necessario sottolineare il fatto che l'Iran non sembra affatto intenzionato a riaprire il dialogo così facilmente, visto che il presidente iraniano Hassan Rohani ha espresso l'auspicio che la prossima amministrazione americana abbia "imparato" dal fallimento che - secondo lui - è stata la politica di massima pressione di Donald Trump e dalle sanzioni imposte a Teheran. Rohani ha sottolineato che un possibile ritorno degli Usa al trattato nucleare e alla formula "P5+1" dovrebbe essere accompagnata dal risarcimento dei danni causati dal ritiro unilaterale americano e da una garanzia che non si ripeta. Prematuro parlare di una ripresa del dialogo con Teheran già all'inizio del suo mandato presidenziale ma la questione iraniana merita di essere ripresa con molto tatto, al fine di riguadagnare credibilità anche nel Golfo.
In Medioriente, l'agenda di Trump e Mike Pompeo ha rappresentato l'ennesimo affronto verso Teheran, sfociato nell'imposizione di nuove sanzioni e la decisione di impegnarsi nella normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi del mondo arabo: gli Accordi di Abramo. La scelta del presidente Usa di privilegiare l'intesa con Israele ha caratterizzato la politica estera americana degli ultimi quattro anni. Il riconoscimento della piena sovranità di Israele sulle alture del Golan occupate con la guerra dei sei giorni nel 1967 e lo spostamento dell'ambasciata Gerusalemme, sono due decisioni che hanno chiarito la linea dell'amministrazione Usa in Medio Oriente fin dall'inizio. Tali scelte hanno portato gli Stati Uniti ad isolarsi da un discreto numero di partner europei ed internazionali. Biden trova, dunque, una regione in cui instabilità, frammentazione e conflittualità sono aumentate in maniera esponenziale. Non sappiamo cosa ne sarà del Piano del secolo su cui Trump ha investito parecchio capitale politico negli ultimi anni. L'intesa con Israele sottolinea le mutevoli dinamiche politiche di una regione in cui gli stati arabi sunniti inquadrano sempre più l'Iran come un nemico e il tandem Israele-Usa come un'opportunità da sfruttare per la stabilità e la risoluzione del conflitto con i palestinesi. L'unico ostacolo alla realizzazione del Piano del secolo era proprio la sconfitta di Donald Trump alle elezioni. Lo stato ebraico rimane un importante alleato per gli Usa anche ma l'attenzione di Biden verso il quadrante mediorientale potrebbe sfociare nella possibilità di rimettere sul tavolo la soluzione "a due stati", su cui l'Unione Europea e la comunità internazionale continuano a spingere.
Joe Biden ha fatto tante promesse nel corso della sua campagna elettorale. A lui spetterà il compito di essere il presidente di tutti, cercando di riportare entusiasmo in un paese afflitto dal Coronavirus e dalla questione razziale su cui Biden dovrà necessariamente intervenire. In mancanza di un’ondata blu e di una totale affermazione dei democratici, buona parte delle riforme promesse da Joe Biden si scontreranno con un Congresso diviso. Infatti, alcune delle riforme più ambiziose del presidente eletto troveranno l'opposizione di un senato a maggioranza repubblicana. Da parte sua, Donald Trump non accettando la vittoria del suo sfidante e dichiarando di voler ricorrere alla Corte Suprema per via di presunti brogli in alcuni degli stati in bilico, esce di scena nel peggiore dei modi. Ma soprattutto con un atteggiamento che non fa bene al paese. D'altronde, da Donald Trump bisognava aspettarsi sempre di tutto. Gli ultimi giorni prima delle elezioni, ci consegnavano un presidente apparso come irresponsabile, negazionista, superficiale, e contro i dati scientifici. Il dato di fatto è che nemmeno gli oltre 8 milioni di contagi e i 230mila morti sono riusciti a scalfire l'atteggiamento di un uomo come Donald Trump nei confronti di una pandemia globale.
Fonti e approfondimenti:
*Cecilia Scaldaferri, Il piano di Biden per contrastare il Covid.
*Carmine Orlando, Coronavirus USA: Trump lascia l’Oms e Biden si gioca il jolly
* ISPI, Business as usual: gli USA di Biden e il Medioriente Medio Oriente
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