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Nothing to fear

Nothing to fear fu il fulcro e l’anima del discorso successivamente tenuto nel 1941 sulle Quattro libertà dal presidente Franklin Delano Roosevelt in un ambito geopolitico mondiale che ci appare troppo lontano nel tempo. Sono passati quasi 80 anni dal quell'arringa eppure il bisogno di sentirsi dire che non c’è da aver paura di niente è sentito e contingente. Partiamo innanzitutto dal punto di affinità che ci lega a quel passato dove il presidente degli Stati Uniti infondeva coraggio e speranza. Mancava una forza di equilibrio, la situazione geopolitica al pari di oggi, vedeva una crisi di leadership mondiale, con più nazioni a giocarsi i ruoli di players.


Analizzare il futuro è compito di chiromanti e imbonitori, ma provando a riflettere su come il mondo uscì dalla recrudescenza degli anni ’40, potrebbe essere utile ad accendere delle spie luminose sul nostro presente. Gli Stati Uniti trascinarono fuori l’Europa e il mondo da una sanguinosa guerra mondiale, ma soprattutto crearono le basi per rendere tangibile quell'equilibrio che era venuto a mancare con la Grande Depressione e l’avvento dei governi nazionalisti. Perno del sistema era sempre il governo statunitense all'interno però del gruppo dei Quattro poliziotti (con tale espressione identificò i primi 4 membri permanenti dell’Onu nel 1941 il presidente Roosevelt). Il quadro odierno (e con questo si possono osservare i molti punti di difformità dal passato) vede la radicale messa in discussione del sistema di equilibrio che si innestava nel solco della neonata Onu: da una parte infatti Russia e Cina contengono agli Stati Uniti il ruolo egemone di ago della bilancia, e dall’altro il ruolo stesso della Casa Bianca che dagli inizi del XXI ha di volta in volta messo in discussione questo sistema, cercando, spesso in maniera troppo blanda (nel caso dei governi Obama durante la crisi siriana) o in maniera aggressiva e altrettanto dannosa (nel corrente governo di Trump nelle crisi nordcoreane e del Medio Oriente). Sul tentativo da parte dei governi di Putin e Xi di svellere il ruolo americano in politica transnazionale si potrebbe ragionare a lungo, altrettanto utile sarebbe partire dal postulato che ciò avvenga soprattutto per la crisi del ruolo d’equilibrio giocato fino al 1989 dagli Stati Uniti. E’ indubbio infatti che a partire dal 2003 si sia assistito ad uno scollamento di quel patto tacito di equilibrio che aveva portato persino la Cina sotto l’alveo della politica statunitense. La presunta invulnerabilità del blocco atlantico è venuta meno nello scontro con i ribelli afghani e ha lasciato aperti degli spazi di manovra in cui si sono inserite, in un contesto regionale l’Iran e internazionale, la Russia e la Cina.


A seguito del ritiro dal Medio Oriente sotto la presidenza di Obama si è assistito ad un maggiore spostamento degli equilibri verso Israele sancito dal governo Trump, che di fatto ha reso incandescente la situazione nel cuore della Mesopotamia. Ed è proprio in questo quadro così composito che si gioca la partita mediorientale, con le minacce di Trump e il sempre più stretto rapporto tra Iran e Iraq, e l’interesse concreto di Turchia, Russia e Cina di entrare nell’area come partners di peso. Tutto questo fa registrare una flessione in negativo nei rapporti geopolitici, sempre più in bilico e tesi in un gioco a tre, con gli Stati Uniti in attesa del responso delle urne e Russia e Cina interessate, ciascuna nella propria sfera di preminenza (ma uniti in quella nordcoreana) a dare la spallata finale alla nazione leader che, ottanta anni fa, rinvigoriva i suoi cittadini e milioni di cittadine e cittadini europei con lo slogan nothing to fear.

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