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OFFTOPIC – L’Italia ha un problema con le droghe, ma non è il consumo.

Fra criminalizzazione e miti da sfatare, tre modelli per superare la ‘guerra’ alle sostanze stupefacenti.


Di Matteo Piovacari


Quello delle sostanze stupefacenti è un argomento molto delicato da trattare, soprattutto all’interno di società, come la nostra, che hanno fatto del proibizionismo, sia giuridico che ideologico, uno dei capisaldi della propria politica di sicurezza interna. Da quando, nel 1971, l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon ha dichiarato il consumo di droghe “nemico pubblico numero uno”, il ricorso al pugno duro nel contrastare l’uso, la diffusione e la produzione di sostanze illecite è divenuto una costante nella maggior parte delle società Occidentali. Questo, con alcune eccezioni che si prenderanno il palcoscenico della nostra discussione. In Italia, ad un proibizionismo de jure, cioè con forza di legge, l’intero dibattito pubblico sulle sostanze stupefacenti è stato permeato da un disinformato ostruzionismo, che ha contaminato qualunque possibilità di portare avanti discussioni e riforme pragmatiche sull'argomento. Di fatto, parlare oggi di droghe e di una revisione del modello della ‘guerra’ a quest’ultime rappresenta un vero e proprio taboo ideologico. All’alba del nuovo decennio, appare lampante come il pugno duro contro le droghe abbia ottenuto risultati tutt’altro che soddisfacenti.


Nel 2011, la Global Commission on Drug Policy (GCDP), comitato internazionale di spicco composto da accademici e leader politici, ha pubblicamente esposto il fallimento della guerra globale alle droghe, denunciandone le gravi conseguenze sociali ed economiche. Il fomentare la violenza fra gang criminali, il sovraffollamento delle carceri e la crescente diffusione di sostanze sempre più potenti (in modo tale da poterne concentrare la maggiore quantità nel minor spazio possibile), e quindi potenzialmente più pericolose, sono solo alcuni dei fenomeni generati ad effetto domino dal ricorso a metodi repressivi per affrontare il problema delle droghe, rivolto soprattutto a criminalizzare i piccoli spacciatori e consumatori. “Arrestare e imprigionare decine di milioni di queste persone, negli ultimi decenni, ha riempito le prigioni e distrutto vite e famiglie senza ridurre la disponibilità di droghe illecite o il potere delle organizzazioni criminali”, si legge nel rapporto della GCDP, “le risorse per il controllo della droga possono essere meglio dirette altrove”.


Anche in Italia, la guerra alle droghe pare aver fallito. Nonostante l’impostazione fortemente repressiva della normativa italiana, il Bel Paese si colloca ancora oggi fra le prime nazioni in Europa per consumo, con alcune sostanze, come cannabis, psicotropi e cocaina, che hanno visto un aumento esponenziale negli ultimi decenni. Presa visione del fallimento del proibizionismo a tutti costi, non sarebbe dunque necessario invertire rotta nel modo in cui le autorità statali, ed opinione pubblica al seguito, si pongono nei confronti delle sostanze stupefacenti? Varie esperienze dal mondo ci dicono che esistono alternative, intraprendendo la strada della decriminalizzazione e regolamentazione, con enormi benefici sociali ed economici. Prima di proseguire, è opportuno precisare che quest’analisi vuole astenersi da qualsiasi giudizio di tipo etico e morale circa il consumo di droghe, cercando di promuovere una riflessione pragmatica, desiderosa di ponderare le varie esperienze che si sono fatte portatrici di un approccio diverso, alternativo alla “war on drugs”. Quando un modus operandi portato vanti per decenni dimostra la sua inefficacia, diventa imperativo guardare oltre. Non a cosa potrebbe funzionare, ma a riforme efficaci che continuano tutt’ora a portare risultati positivi e verificabili ove sono state applicate. Premessa fatta, iniziamo dagli Stati Uniti.


L’uso ricreativo della cannabis negli USA e Paesi Bassi.


San Jose, California. Mattina del 1° gennaio 2018. Una folla trepidante attende fuori da uno dei primi negozi al dettaglio che hanno ottenuto la licenza per vendere marijuana. È una svolta storica per la California, segnata nel 2016 dal Adult Use of Marijuana Act che ha legalizzato la vendita autorizzata di cannabis per uso ludico ai cittadini americani maggiorenni. La California si aggiunge alla lista di ben 14 altri Stati americani a dotarsi di simili disposizioni, così entrando in un mercato nazionale dal valore complessivo di circa 15 miliardi di dollari, e destinato ad aumentare esponenzialmente nella prossima decade. Tre anni più tardi, la California avrà incassato 1.8 miliardi di dollari provenienti dalle imposte sul mercato della cannabis, fondi pronti a essere reinvestiti in programmi sociali e di salute pubblica. Ingenti risorse, soprattutto, tolte dalle mani delle organizzazioni criminali, il cui mercato è stato ridimensionato. Una soluzione win-win, insomma, che ha permesso agli Stati dove la cannabis è stata legalizzata un ulteriore risparmio complessivo di centinaia di milioni di dollari legati alla diminuzione delle spese di magistratura carceraria (meno persone detenute per possesso) e alle operazioni di ordine pubblico.


Di fronte ai dati che dimostrano il fallimento della guerra alle droghe leggere nel nostro Paese, il modello americano, così come quello olandese o uruguayano, offrono un’ottima alternativa. Tenuto conto che il consumo di cannabis continua a crescere nel nostro Paese, consegnandoci il terzo podio in Europa dopo Spagna e Francia, nonostante l’azione repressiva delle istituzioni e forze dell’ordine, l’Italia dovrebbe considerare l’adozione di un modello opposto, aperto alla legalizzazione e regolamentazione del mercato della cannabis. Questo soprattutto considerando che il traffico illegale di droghe leggere frutta alle mafie miliardi ogni anno. La sola vendita della cannabis light (praticamente priva di principio attivo THC), resa legale nel 2016, arriva a sottrarre alle mafie dai 90 ai 170 milioni di euro l’anno. Un regime regolamentato di vendita e consumo avrebbe il potenziale di trasformare risorse economiche e sociali, al momento assorbite dal narcotraffico, in gettito diretto per lo Stato. Secondo alcune stime, il che significherebbe un’entrata dai 5 agli 8 miliardi di euro l’anno nelle tasche del fisco e 300.000 nuovi posti di lavoro nel settore. Un win-win, come dicevamo, quanto per le entrate dello Stato, che per la lotta alla criminalità organizzata.


All’interno del dibattito pubblico italiano, arenatosi sulla bocciatura della Fini-Giovanardi nel 2006, i detrattori di un regime regolamentato per le droghe leggere paventano principalmente due questioni, impostate su una costruzione alquanto lacunosa della realtà: un possibile aumento dei consumi in seguito alla legalizzazione, e i pericoli per salute posti dalla marijuana. Giustamente, la logica ci spingerebbe a dire che rendendo una sostanza di più facile accesso a tutti, i consumi dovrebbero aumentare di conseguenza. Eccoci di fronte al primo mito da sfatare. I dati raccolti sull’esperienza americana sembrano suggerire il contrario, e guardando all’Olanda, paese in cui la cannabis per uso ricreativo è stata legalizzata negli anni 70’, questa versione viene confermata. Nei Paesi Bassi, la percentuale di persone che fa uso abituale di cannabis si aggira intorno al 5%, mentre in Italia si parla di almeno un 14%, un segmento estremamente più ampio. Parlando proprio del modello olandese di ‘riduzione del danno’, lo scrittore Simon Kuper afferma sul Sole 24 Ore: “è sbagliato pensare che lo stato olandese sia favorevole alla cannabis [...]. In verità, lo stato olandese è pragmatico. Preferisce che alcune attività a rischio siano sotto gli occhi di tutti (dove le si può regolamentare e tassare), mentre altri paesi le rendono clandestine, relegandole laddove prevale il disordine.” Circa la presunta pericolosità delle droghe leggere, numerosi studi hanno dimostrato come il consumo di marijuana comporti si certi rischi, ma comunque moderati se si considerano altre sostanze di uso comune, e tutt’altro che illegali, come il tabacco o l’alcol. Inoltre, sono noti i benefici, e crescenti le applicazioni, dei cannabinoidi in ambito medico. Tali proprietà sono state riconosciute positivamente dalle Nazioni Unite lo scorso dicembre, che hanno eliminato la cannabis dalla lista delle sostanze più pericolose. Un’ulteriore conferma questa, che fa traballare la tanto proclamata posizione ostruzionista sulla pericolosità della cannabis. E mentre circa 80mila persone all’anno muoiono per cause legate al consumo di tabacco e 40mila al consumo d’alcol, ad oggi non si è ancora registrata nessuna vittima causata da droghe leggere. Nemmeno una.


Decriminalizzazione e il modello portoghese di ‘riduzione del danno’.


Portogallo, anni 80’. La fine della dittatura di Salazar ha portato una ventata di ritrovata libertà nel paese iberico. Tuttavia, insieme alla democrazia e l’apertura ai mercati internazionali, in Portogallo iniziano ad approdare anche sostanze stupefacenti in quantità massicce, soprattutto eroina a basso prezzo proveniente dal Medio Oriente. Sia la novità, sia la poca esperienza dei giovani portoghesi con le droghe, queste diventano presto un problema di portata nazionale. A metà anni 90’, sono 100mila i tossicodipendenti, su una popolazione di neanche 10 milioni di abitanti. Nel 2001, il governo portoghese riconosce il fallimento dell’approccio repressivo nei confronti dell’uso di sostanze stupefacenti, per il quale i consumatori venivano perseguiti penalmente, e la tossicodipendenza veniva dipinta nell’immaginario comune come catalizzatrice certa di attività criminose. Con un colpo di penna legiferatrice, la rivoluzione è fatta. Il consumo e possesso di stupefacenti non è più considerato reato, ma un semplice illecito amministrativo. Ma c’è di più, i cittadini trovati in possesso di sostanze, sono valutati da una commissione “per la dissuasione dalla tossicodipendenza”, che nei casi gravi suggerisce (non obbliga) all’individuo vari programmi di supporto medico e riabilitativo, volti a reintegrare la persona all’interno della società. È l’inizio di una svolta, che soppianta un modello di lotta alle droghe fortemente repressivo, ma inefficace, con una politica indirizzata alla riduzione del rischio e del danno. È l’inaugurazione di una linea d’azione che mette al centro la persona, la sua salute e le condizioni che l’hanno portata a sviluppare una dipendenza, invece di concentrarsi sull’oggetto del reato, stigmatizzando il consumatore e spingendolo ad un maggiore isolamento sociale. Inutile dire che contrariamente ai detrattori di questa riforma, che paventavano un aumento esorbitante dei consumi, l’approccio portoghese ha raggiunto un successo indiscutibile. Non solo ha portato a una riduzione sia nel consumo di droghe, che del numero di individui caduti nella spirale della tossicodipendenza, ma ha anche contribuito ad attenuare altri fenomeni come le morti per overdose o il numero di malattie sessualmente trasmissibili collegate al consumo di sostanze come l’eroina. Nel 2012, due accademici inglesi hanno analizzato le posizioni che contestavano i successi del modello portoghese, determinando che in quanto a consumo di droghe c’è stato “un beneficio netto positivo per la comunità portoghese”. Il Portogallo ha di certo dimostrato al mondo come depenalizzare, includere ed integrare ha ripercussioni sociali incredibilmente positive rispetto a un sistema che tratta chi fa uso di droghe come un qualsiasi criminale. Molte volte, le barriere intorno a queste persone sono create proprio dal sistema che vorrebbe aiutarle. L’Italia dovrebbe impararlo.


L’eroina di Stato in Svizzera.


Zurigo. Giugno 1990. Alcuni giovani siedono, laccio emostatico legato stretto al braccio, sulle panchine del Platzspitz, uno dei parchi del centro di Zurigo divenuto il punto più caldo della scena aperta dell’eroina in Svizzera. I tossicodipendenti che frequentano il Platzspitz sono più di 3000 ogni giorno, tanto che l’area è stata soprannominata Needle Park (Parco degli aghi, o delle siringhe). Sono anni complessi per la repubblica elvetica. Qui, il consumo e la dipendenza da eroina sono divenuti a partire dagli anni 80’ una piaga in forte espansione, favorendo altri fenomeni come la microcriminalità e la diffusione dell’Aids. Come in Portogallo, le politiche repressive messe in atto fino a quel momento sembravano solo aver acuito i problemi anziché risolverli. Come in Portogallo, le autorità hanno optato per un approccio alternativo alla ‘guerra’ all'eroina, basato sulla riduzione del danno e il tentativo di reintegrare i tossicodipendenti all'interno della macchina sociale dello Stato. Nel 1992, il Governo svizzero ha iniziato a somministrare eroina ‘pulita’, cioè priva di tutte le sostanze nocive che sono solitamente usate per tagliarla, ai tossicodipendenti più gravi. Sono state aperte cliniche per garantire luoghi sterili alle somministrazioni, in cui gli individui possono ricevere assistenza medica e psicologica, accedendo poi a programmi di consulenza sociale che li aiuti a risolvere le varie problematiche delle proprie vite. Una decisione tanto pioneristica per quanto controversa. Uno Stato che fornisce gratuitamente eroina, una sostanza che se pura è relativamente innocua ma provoca una forte dipendenza, ai propri cittadini sembra un’immagine uscita da un film distopico. Eppure, come i modelli precedenti, la storia dell’eroina di Stato in Svizzera è una storia di successi. I decessi per overdose sono diminuiti, così come i malati di Aids. La criminalità legata allo spaccio è stata abbattuta, e il consumo di eroina notevolmente ridotto, con due terzi dei tossicodipendenti che sono stati seguiti nei centri di somministrazione che hanno trovato un lavoro regolare. Luoghi come il Platzspitz sono completamente scomparsi.


Negli anni, in Italia e nel mondo, la stretta repressiva contro il consumo di sostanze stupefacenti non è stata all’altezza degli obbiettivi che si era prefissata, giungendo ad avere un impatto negativo sul tessuto sociale di molte comunità. Stati Uniti, Portogallo e Svizzera mostrano tre esempi funzionanti di come sia possibile superare il modello della guerra alle droghe con riforme pragmatiche e giudiziose. È dunque possibile costruire un regime di consumo regolamentato, nel caso delle droghe leggere, che assorba risorse alle organizzazioni criminali, trasformandole invece in un’entrata per le casse pubbliche, mentre la cannabis per uso ricreativo potrebbe essere medicalmente controllata. È anche possibile decriminalizzare le droghe pesanti, mettendo al centro la salute e la riabilitazione dei tossicodipendenti come parte integrante dell’intorno sociale, e non come reietti. Sembra un ossimoro, ma i modelli sopra presentati ci confermano che è la realtà dei fatti (e dei dati) che parla. Solo in questo modo, superando il taboo ideologico e legislativo sul consumo di stupefacenti, potremo costruire società più salubri e giuste, dove anche a chi cade nel tunnel della droga viene data un’opportunità per uscirne, e rilanciare la propria vita. È un diritto che tutti dovremmo avere.


Fonti & Approfondimenti:



I proventi del mercato della cannabis negli USA (ENG): https://www.greenentrepreneur.com/article/361617









Lo studio inglese sulla decriminalizzazione delle droghe in Portogallo (ENG): http://www.undrugcontrol.info/images/stories/documents/A_resounding_success_or_a_disastrous_failure.pdf






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