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Una poltrona per due

Di Mauro Spina


I rapporti geopolitici tra l’Unione Europea e la Turchia non sono intercorsi con regolarità, come avvenuto per altre componenti nazionali dell’Europa ex sovietica ad est. A frapporsi al cammino che la Turchia scelse di intraprendere fin dal 1963 quando aderì all’accordo di Ankara di natura economica, vi sono numerose cause. Da una parte i timori di matrice nazionalistica della Grecia e dell’Austria, che hanno reso difficile il negoziato di Helsinki del 1999 quando il Consiglio Europeo decise di approvare lo status di paese candidato del governo di Ankara.

Un nemico storico per la Grecia, una nazione islamica per l’Austria e tanto basta per farne un pericolo tout court. A ciò va aggiunto il rischio ventilato negli anni ’90 che la Turchia nel nuovo millennio avrebbe rappresentato la fetta più consistente di cittadini europei, musulmani e quindi un possibile spostamento dell’asse economico prevalente allora, quello franco-tedesco.

L’inconsistenza di Bruxelles ha lasciato fermentare ed esplodere movimenti nazionalisti turchi, indeboliti nel corso del tempo dalla possibilità di un eventuale ingresso nell’Unione, rafforzando quella larga fetta di società civile (concentrata nelle zone costiere del mare Egeo e nella città di Istanbul) meno incline al nazionalismo turco di matrice religiosa. Le incertezze e la fase di stasi hanno permesso al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdogan di intestarsi la guida assoluta del paese mettendo in atto una politica repressiva e antidemocratica che ha allontanato inesorabilmente la Turchia dall’Unione Europea.

La guerra civile siriana esplosa nel 2011 ha reso protagonista la Turchia, crocevia dei migranti siriani e della Mesopotamia in fuga da guerre civili e situazioni nazionali insostenibili. Il coltello nelle mani di Erdogan ha affondato nelle contraddizioni dell’Ue numerosi colpi. Nonostante la rottura di ogni tipo di relazione con Bruxelles, gli stati membri pagano in moneta sonante il governo turco per impedire ai migranti di attraversare lo stretto del mar Egeo, costringendoli di fatto a rimanere prigionieri della polizia di frontiera e permettendo a Erdogan non solo di ricattare l’Unione, ma anche di reprimere ancor più duramente il dissenso interno (ultima mossa, quella di uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, il 20 marzo scorso).

Il presidente incontrastato della Turchia può presentarsi come uomo forte capace di aver messo sotto scacco l’intera Unione Europea, e giocare su due tavoli in Medio Oriente (dove la stessa Ue fatica a ritagliarsi uno spazio d’autonomia) appoggiando sia l’asse russo-iraniano sia quello saudita-statunitense. Nel mezzo, i rapporti torbidi tra Ankara e lo stato di Daesh (de iure contrastato, de facto finanziato illegalmente).

Ed è in questo quadro che si inserisce la querelle della poltrona, che ha visto protagonista Erdogan e la presidente della Commissione europea Ursula Von der Layen. A pochi giorni dal ritiro della Turchia dalla Convenzione, quale atto di forza poteva esercitare Erdogan nei confronti dello scomodo vicino democratico? Far sedere uno dei due interlocutori (una donna) al divano mentre lui iniziava il dialogo con l’altro rappresentante (un uomo) Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo.

Più volte il presidente turco ha manifestato insofferenza per i movimenti femministi turchi, paragonati ai terroristi curdi e come quest’ultimi fortemente repressi. In una nazione dove la violenza di genere è endemica, per nulla contrastata dalla politica machista e patriarcale del Presidente. Uno sgarbo che si traduce in una vittoria, il posto di una donna è lontano dai luoghi di potere, il gesto della Presidente Ursula Von der Leyen è eloquente.

Ancora una volta l’Unione si mostra debole, incerta e vittima delle sue paure interne. Occorre domandarsi se vale davvero la pena pagare il governo turco per farsi tenere in ostaggio e offendere in maniera così palese. Così come occorrerebbe domandarsi se è utile pagare il governo libico per tenere in piedi campi di prigionia e una guardia costiera che si è dimostrata più volte per nulla regolare, con metodi brutali tuttavia sostenuti dal governo italiano.

Le attiviste turche, le donne turche e curde in Turchia, i migranti costretti nei confini turchi valgono davvero l’impegno di Bruxelles nei confronti di un governo che non ha più paura a mostrarsi col suo vero volto antidemocratico?

Intanto a farne le spese ancora una volta, l’immagine dell’Unione Europea: fragile e debole, rappresentata perfettamente dal volto smarrito di Charles Michel quando si accorge che la sua collega deve rimanere in disparte. E in quello che è stato definito sbrigativamente un incidente diplomatico, esultano i governi di Budapest (che nei confronti delle donne e delle comunità Lgbt+ ha intrapreso lo stesso percorso di Erdogan) e quello di Cracovia (palesemente omofobo con una feroce politica di ortodossia religiosa che non a caso penalizza soprattutto le donne).

Alleato principale dell’Ungheria e della Polonia in Italia è il leader della Lega Matteo Salvini che da giorni tiene in ostaggio col suo rappresentante Ostellari la Commissione che deve calendarizzare il Dl Zan. Segno evidente di un filo conduttore sottile che lega Ungheria, Polonia e Lega al patriarcato in salsa islamica di Recep Tayyip Erdogan, e non è un caso che sullo sfondo resta il principale partner (anche se non sempre evidente) di tutte le parti in gioco: l’illiberale governo di Vladimir Putin.

La domanda finale da proporre è una sola: l’Unione Europea è davvero così diversa dalla Turchia di Erdogan?

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