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L’America divisa di Trump e perché Joe Biden dovrebbe guardare alla Nuova Zelanda

Di Matteo Piovacari


“I ran like a Democrat but I will be the president of everyone, who does not seek to divide, but to unite” (Mi sono candidato come Democratico, ma sarò il presidente di tutti; un presidente che non cercherà di dividere, ma di unire). Parole che si sono levate con fragore nella notte di Wilmington, quartier generale della campagna elettorale Dem, in occasione del discorso di vittoria che ha inaugurato l’avventura di Joe Biden come 46esimo Presidente degli Stati Uniti D’America. Com’era previsto dai sondaggi, che questa volta non hanno sbagliato, Biden ha superato il Presidente uscente con 306 Grandi Elettori contro i 232, grazie alle vittorie incassate negli stessi swing states che avevano regalato la Casa Bianca a Donald Trump nel 2016. Parole inclusive, quelle pronunciate dalla vicepresidente Harris e da Biden, che hanno posto l’accento sulla necessità di ‘guarigione’ (This is the time to heal in America!), e cioè riconciliazione, del popolo americano, accendendo un faro nell’oscurità della polarizzazione sia sociopolitica, che culturale, che ha lacerato gli Stati Uniti negli ultimi anni. La domanda, e sfida numero uno che la nuova amministrazione dovrà fronteggiare, riguarda la capacità di dar seguito alle promesse di costruire un’America più unita, restituendo solidarietà e sinergia ad un Paese che mostra oggi profonde spaccature.


Ogni leader, in qualsiasi ambito di riferimento, è caratterizzato da un particolare stile di leadership. Questo è capace di esercitare un potere ‘attrattivo’ nei confronti dei propri sostenitori e subordinati, che ne influenza indissolubilmente comportamenti e modi di pensare. Che ci piaccia o meno, un leader è capace di plasmare la realtà che lo circonda, individui compresi. Dagli albori della campagna elettorale per le scorse presidenziali, lo stile di leadership utilizzato da Donald Trump è risultato piuttosto controverso, soprattutto nel rappresentare una rottura non solo con i propri predecessori, ma anche con le aspettative istituzionali riguardanti il ruolo di capo di Stato. Ricorrendo ad una dialettica di basso spessore, che noi Europei ameremmo definire ‘populista’, Trump ha abilmente costruito la propria figura di leader attorno a una personalità arrogante, egocentrica e imprevedibile, con nessuno scrupolo nel raggiungimento dei propri obbiettivi. A questo proposito, per esempio, possiamo citare gli insulti sessisti più volte indirizzati a Hilary Clinton o lo schernimento di un giornalista disabile durante la passata campagna. Tutto ciò anche a costo di annebbiare la verità con la menzogna, come meticolosamente documentato dal The Washington Post nel rilevare più di 20000 affermazioni false o ingannevoli uscite dalla bocca del Presidente dal suo insediamento alla Casa Bianca. Nulla di nuovo per un personaggio che già nel 1987, all’interno del suo primo libro “L’arte degli Affari”, sosteneva che la chiave del successo è la spavalderia. Con i suoi discorsi ed azioni, Trump non è solamente riuscito a sdoganare un certo modo, formale e rispettoso, di fare politica, ma ha soprattutto normalizzato una maniera di relazionarsi con l’altro, soprattutto con chi la pensa diversamente, che valorizza lo scontro, e invoca l’esclusione. Seppur Trump sia uscito sconfitto dalle urne, il consenso riscosso durante questa tornata elettorale confermato dagli 11 milioni di supporters in più rispetto al 2016, attesta un certo successo del suo stile comunicativo e di leadership.


Tuttavia, in una cosa l’ormai ex-Presidente ha irreparabilmente fallito. Gli Stati Uniti lasciati da Trump, infatti, si presentano oggi come un Paese ancora più diviso di quanto già fossero quattro anni fa, quando il miliardario cavalcò il rinnovato populismo ‘bianco’ per aggiudicarsi la Casa Bianca. La situazione appare tanto critica che il giornalista Carl Bernstein l’ha definita con i termini militareschi di ‘cold civil war’. Una guerra interna sospesa da equilibrio precario. L’America, che presenta una forte eterogeneità economica, è attraversata da profonde fratture che spaccano la società americana a più livelli: bianchi contro neri, uomini contro donne, centri urbani contro prossimità rurali, e la lista potrebbe proseguire. La polarizzazione politica segue a ruota. Secondo il Pew Research Center, il livello di polarizzazione negli USA è cresciuto esponenzialmente dal 1994 ai giorni nostri, con i due principali partiti che si sono inalberati su posizioni ideologiche sempre più antitetiche, e gli americani che mostrano una maggiore intolleranza verso i sostenitori dell’altra forza politica. Fomentatrice di questa deriva, la retorica feroce usata da Trump per bersagliare critiche e dissensi ha aggiunto benzina sul fuoco, giungendo a demonizzare agli occhi dell’elettorato movimenti come Antifa o #MeToo, gruppi etnici come gli afroamericani o i latinos, e addirittura gli attivisti per il clima. La polveriera americana è scoppiata lo scorso maggio con l’accendersi delle proteste Black Lives Matter, iniziate dopo l’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia di Minneapolis. Nei mesi successivi, mentre intere città venivano straziate da violenze e scontri fra polizia e manifestanti, le parole del Presidente, scandite a colpi di Tweets, non hanno fatto altro che fomentare il protrarsi della guerriglia urbana e la polarizzazione dell’opinione pubblica. Parallelamente, uno scenario simile si è riproposto nel modo ambiguo in cui l’amministrazione repubblicana ha gestito, anche comunicativamente, la pandemia. In queste istanze, Trump ha mancato di una delle doti più importanti per un leader, secondo quanto indicato da molti esperti di leadership, e cioè l’empatia. Invece di costruire una via di riconciliazione pro-unità nazionale, il Presidente uscente ha costantemente puntato sulla divisione e l’estremizzazione caricaturale del nemico, visibile o invisibile che sia, e dell’oppositore politico, plasmando un clima elettorale senza precedenti negli USA.


Chi invece dell’empatia ha fatto la propria forza, aggiustandola ad una capacità di governo pragmatica ed efficace, è Jacinta Ardern, giovane Prima ministra neozelandese rieletta ad un secondo mandato lo scorso ottobre con il 49% dei voti; un successo che in Nuova Zelanda non si vedeva da 50 anni. La leader laburista, che a maggio aveva battuto ogni record storico in quanto ad approvazione popolare, ha conquistato la rielezione grazie a una capace gestione dell’epidemia di Covid-19, che ha portato alla totale eliminazione del virus dall’isola, ma soprattutto è riuscita a vincere i cuori e i voti del popolo neozelandese con le sue spiccate doti di comunicatrice. Durante il suo primo mandato, la Ardern ha armonizzato risolutezza e pragmatismo in campo decisionale, con una grande chiarezza comunicativa, fedelmente accompagnata da una genuina umanità. Una dimostrazione lampante di questo stile di leadership si ha avuto durante la fase di lockdown duro, imposto repentinamente agli albori della pandemia quando in Nuova Zelanda si contavano solo 102 casi totali. Grazie all’utilizzo dei social, la Ardern è rimasta in costante contatto con il pubblico, spiegando in termini semplici i dettagli di ogni misura di emergenza comunicata durante le conferenze stampa precedenti, instaurando un rapporto umano e di fiducia con i neozelandesi durante un momento di crisi inedito. Un altro episodio emblematico che ha segnato il percorso di affermazione di Jacinta Arden è stata la risposta agli attentati di Christchurch, i più gravi nella storia del Paese con 51 vittime, avvenuti nel marzo 2019 per mano di un suprematista bianco. Nell’occasione, la Prima ministra aveva affrontato il tema, potenzialmente divisivo, dimostrando una leadership calma e compassionevole, proiettando la vicinanza dell’intero popolo neozelandese alla comunità islamica colpita dagli attacchi, e rigettando qualsiasi retorica esclusiva o razzista. All’indomani della strage, la leader si è pronunciata in uno dei discorsi più evocativi della storia recente, stringendosi al dolore della comunità musulmana e dei parenti delle vittime, In questa occasione, la Ardern ha simbolicamente indossato un velo nero, monito di cordoglio con la minoranza islamica che vive nel Paese.


Alla luce della situazione critica degli Stati Uniti post-Trump, il neopresidente Joe Biden dovrebbe studiare con meticolosità il modello di leadership offerto da Jacinta Ardern, prendendo si spunto dal suo pragmatismo di governo, ma soprattutto osservandone la capacità di stabilite un rapporto umano con il proprio popolo, che l’ha resa una dei leader più efficaci del nostro tempo. È certo che si tratti di due contesti culturali e sociali profondamente diversi, ma la Ardern ha mostrato al mondo come l’empatia, l’umanità e la compassione siano doti fondamentali nel costruire una visione unitaria e riconciliatoria, capace di guidare una nazione attraverso momenti di crisi senza precedenti. L’America ne ha estremamente bisogno, perché, come ricordava Abraham Lincoln, “una casa divisa contro sé stessa non può reggere”.



Fonti & Approfondimenti:






Pragmatismo, risolutezza ed empatia di Jacinta Ardern: https://www.lifegate.it/jacinda-ardern-nuova-zelanda-2020

Il discorso di Christchurch: https://www.youtube.com/watch?v=YdGq3frFsRo



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