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L’Italia che si spopola: quali prospettive per la crisi demografica del Bel Paese?

Aggiornamento: 2 apr 2021

Di Matteo Piovacari


Quante volte vi sarà capitato di sentir dire che la popolazione mondiale è destinata ad aumentare esponenzialmente, fino a raggiungere un numero tale da prosciugare le risorse del nostro pianeta? Vari studi sembrano suggellare queste nefaste proiezioni, ma solo se si prendono in considerazione alcune aree geografiche come, ad esempio, l’Africa. La crescita, infatti, non sarà territorialmente uniforme. In molti Paesi, come l’Italia, ci troveremo a fronteggiare il problema opposto, e cioè un calo delle nascite che potrebbe portare ad un vero e proprio ‘spopolamento’ interno, con pericolose ricadute sulla tenuta economica e sociale dello Stato.

Secondo lo studio pubblicato lo scorso luglio sul The Lancet, una fra le più autorevoli riviste di medicina a livello mondiale, in Italia nel 2100 vivranno 28 milioni di persone, 31 secondo stime più ottimistiche. Il Bel Paese appare infatti destinato a seguire la traiettoria di altri 183 Paesi (su 196!) che potrebbero scendere sotto al cosiddetto “livello di sostituzione”, cioè il tasso di natalità minimo per mantenere una popolazione in equilibrio, nei prossimi 80 anni. Pensatela come per il l’indice di trasmissibilità del Covid-19. Più è basso il valore, quel famoso “R con 0”, più si va verso l’estinzione del virus. L’Italia si troverebbe dunque in una parabola discendente a livello demografico che la potrebbe portare ad un tracollo economico ed un’irrilevanza sul piano geopolitico, passando da essere la 9° economia mondiale al 25esimo posto. Questo prendendo in considerazione il PIL nazionale, indicatore non esaustivo ma rappresentativo della situazione e prestanza economica di una nazione.

Il problema maggiore, possibile ma non sentenziatore, che si andrebbe a creare in questo scenario riguarda l’equilibrio fra popolazione attiva, cioè in età lavorativa, e popolazione che invece occupa maggiormente la spesa pubblica, ovvero gli under 15 e gli anziani. Secondo un recente rapporto dell’Istat, già nel 2065, la popolazione in età da lavoro rappresenterà il 55% del totale, dovendo farsi carico di sostenere il restante 45%, il quale necessita di maggior assistenza da parte dello Stato. A questo equilibrio precario, che comunque potrebbe essere di per sé potenzialmente sostenibile, si deve aggiungere il tasso di disoccupazione della popolazione in età da lavoro, giungendo a disegnare un quadro socioeconomico avviato al tracollo.

Alcune soluzioni a questa problematica sembrano esistere, ma l’opinione pubblica italiana, comunità accademica e dei media compresa, si trova in forte disaccordo sulla loro efficacia. Da una parte, l’immigrazione, capace di importare e integrare capitale umano nell’economia nazionale, viene dipinta da molti come ancora di salvezza contro l’imminente spopolamento. L’arrivo di migranti giovani da Paesi che presentano tassi di natalità più elevati viene considerato un possibile freno alla degradazione demografica, contribuendo a rialzare il livello di nascite in Italia. Tali flussi, tuttavia, potrebbero non essere sufficienti. Ad esempio, è necessario tenere in conto che l’Istat considera già nelle sue proiezioni al 2065 un contributo medio annuo di 165 mila immigrati che verrebbero accolti sul suolo italiano. Questa strada è resa ancora più complessa dall’osteggiamento dimostrato da buona parte dell’opinione pubblica italiana a politiche migratorie più inclusive che ne potrebbe ostacolare l’avviamento nel medio periodo. Altre voci, provenienti soprattutto da ambienti più conservatori e cristiano-cattolici (anche se non esclusivamente), sostengono la necessità di politiche di welfare che incoraggino le famiglie ad aumentare la natalità. Tutelare i genitori che hanno figli e garantire un forte assistenzialismo alle famiglie sono politiche necessarie, ma anche questa opzione sembra insufficiente a garantire una solida sostenibilità demografica. Se si considera infatti che il tasso di fecondità medio per mantenere una popolazione in equilibrio si aggira intorno a 2, è interessante notare come anche Paesi fortemente avanzati nel promuovere politiche di sostegno alle famiglie, oltre a figurare fra i più benestanti al mondo, come la Svezia (1,85; 2017) o la Danimarca (1,79; 2017), fatichino a mantenere il suddetto equilibrio. C’è poi chi, come il giornalista Luigi Bonatti sul Il sole 24 ore, scarta l’ipotesi di far affidamento sul fattore immigrazione, propendendo invece per un miglioramento qualitativo dei settori economici meno specializzati come chiave di volta per abbattere la disoccupazione dilagante in Italia. Solo in questo modo si potrebbe costruire una popolazione lavorativa capace di farsi carico dell’altra metà passiva. Un rebus, quello della crisi demografica, che è reso più complesso da una forte divergenza fra le soluzioni proposte, che rischia di tramutarsi in una visione politica monodirezionale volta a favorire l’uno o l’altro approccio. Tuttavia, come insegna Aristotele, in tutti gli ambiti della vita la virtù risiede nel mezzo (“in medio stat virtus”), nell’equilibrio fra gli estremi. Tradotto nel contesto in questione, sarebbe dunque opportuno orientare le decisioni politiche verso un approccio multidimensionale, che soppesi e riesca ad integrare le varie opzioni sul tavolo. Concentrarsi su un solo ambito, soprattutto dando risposte semplici a sfide molto complesse, rischia di aggravare e perpetuare alcune problematiche costanti della storia recente del Bel Paese, come il gap fra necessità pratiche del mercato e preparazione tecnica della classe lavoratrice o l’integrazione dei flussi migratori.

Di questo ed altri dilemmi del nostro secolo si interroga lo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo libro “21 lezioni per il XXI secolo”. Lo scrittore israeliano si sofferma a riflettere in maniera particolare sull’impatto che la progressiva tecnologizzazione e automazione del mondo del lavoro, con robot ed intelligenze artificiali sempre più capaci di emulare le più complesse funzioni cognitive dell’essere umano e quindi svolgere anche i lavori più specializzati, potrebbero avere sulla percentuale di persone che lavora. L’automazione potrebbe apparire a prima vista la risposta più adatta ad uno scenario di crisi demografica ed economica come quello che si prospetta nel futuro prossimo, in Italia e altrove. Le macchine, infatti, potrebbero efficacemente sostituire parte della forza lavoro, supportando la popolazione attiva e la macchina statale nel sostentamento della fetta di popolazione che non lavora. Ciò nonostante, non si deve dimenticare che un’economia solida ha soprattutto bisogno di un ampio mercato interno per sostentarsi, e questo significa ‘consumi’. È chiaro che una drastica riduzione della popolazione porterebbe ad una forte contrazione di quest’ultimi. Alle macchine non importerà comprarsi del gelato artigianale, leggere un quotidiano o andare a mangiare in un particolare ristorante tipico. Quello dell’automazione è un discorso da non prendere alla leggera.

Appare spiazzante quanto il campanello d’allarme suonato dallo studio di The Lancet sia invece passato in sordina nello scenario pubblico italiano, politica e giornalismo primi fra tutti. Occorrerebbe mettere da parte slogan propagandistici e misure mirate ad una visione politica di corto raggio, capace di navigare a vista verso i prossimi appuntamenti politici, per ridisegnare strutturalmente il Bel Paese, affrontando in maniera lungimirante sfide ultrasecolari come l’immigrazione e l’imminente crollo demografico.

Fonti & Approfondimenti:

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